ululato da Pralina alle ore 22:53 venerdì, 05 ottobre 2007
Grazie. Insomma, è difficile far ridere quando si ha la morte nel cuore... però ci provo... stasera sono qui da sola, i vostri commenti, quello che dite, anche se è per gioco... mi danno un segnale della vostra presenza.
E' un po' come sorvegliare un faro, lo fai da solo però il tuo lavoro serve agli altri... e poi è come essere in radio, ci si mette le cuffie e si parla davanti a un microfono, si mette su la musica, sapendo di essere ascoltati, anche se non si sa bene da chi... ma è importante...
Adesso sto un po' ridendo un po' piangendo, perché? E' difficile fare l'abitudine alla solitudine... a volte mi piace, mi piace la maggior parte del tempo, la solitudine in fondo è rassicurante, ed è creativa... però ci sono dei momenti che non la sopporto, dei momenti come questo che mi sembra di scoppiare... noi esseri umani siamo pur sempre esseri sociali, no?
La solitudine peggiore non è quella fisica, ma è il senso di disagio e di esclusione che assimili profondamente in un'età troppo piccola, quando non sai ancora esprimerti bene, quando le emozioni ti stanno tutte addosso come uno tsunami e non riesci a gestirle con le parole, che sei diverso (diversa) e che non verrai mai accettato (o accettata) completamente. Quella solitudine lì, la solitudine dell'esclusione è davvero brutta.
Questa sera avrei tanto bisogno di una carezza, di un bacio sui capelli... Cristo santo, è così difficile da ottenere?
Da bimba mi sentivo un mostro perché non avevo, non ho, dei tratti "italiani" e questo anziché riempirmi d'orgoglio e di fierezza, come cerco di fare oggi, mi faceva sentire molto sola e molto brutta, perché mi sentivo sempre strana e a disagio anche nella mia stessa famiglia, dove c'erano delle persone che nonostante il mio immenso amore, anziché proteggermi, mi rifiutavano e mi bersagliavano.
Bruttezza o bellezza non erano valutazioni estetiche (quando si è piccoli "bello" significa buono, così come "brutto" significa cattivo) ma affettive.
Come nella fiaba Il Brutto anatroccolo di H. C. Andersen ho imparato che non siamo mai completamente diversi, abbiamo dei simili. Li abbiamo per forza: milioni di anni di evoluzione non sono una stronzata, e Darwin non si era bevuto il cervello.
Solo che i miei simili sono tanto distanti, geograficamente da me. E' difficile spiegare, in termini emozionali, cosa si provi sapendosi "diversi" per qualsiasi motivo. Tendenzialmente, ci si mette sempre sulle difensive.
E poi, non appena si percepisce un segnale, anche timido, un battito d'ala di un angelo, una parola di rassicurazione, ci si scioglie con niente... ma forse è troppo tardi, per far capire agli altri che siamo ricettivi, e pieni d'amore... e così teneri, come dei cuccioli a volte... la mia diffidenza e la mia timidezza viene scambiata per alterigia e per "spinosità". Superbia?
A volte mi rimproverano di starmene sulle mie, di non chiedere mai nulla a nessuno, e non sanno che io dentro tracimo d'amore, sincero, pulito... che ho un immenso bisogno d'affetto e un'incredibile capacità di donarlo... che chiunque riesce a darmi delle emozioni incredibili, che mi ricordo di tutti, che non dimentico mai nessuno, neanche di chi incontro sul treno una sola volta.
Sono passati tanti anni, ma i nodi restano a volte.
Sì, restano, quando anziché scioglierli, si fanno degli incredibili pasticci emozionali che si sommano col tempo andandosi a saldare con quei nodi antichi. Allora i grovigli sono davvero difficili da risolvere.
Vi abbraccio, altro non riesco a scrivere, questa sera vorrei tanto sentire il calore di un bacio e di una carezza, una mano lieve sui miei capelli... vorrei, come quel piccolo anatroccolo sgraziato, sentirmi parte di una famiglia di cigni, volare in alto... volare via...
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