ululato da Pralina alle ore 00:28 venerdì, 09 febbraio 2007 Caro gallerista d'arte a pagamento o affittuario di garçonniere da esposizione, voglio scriverti una lettera. La mia corrente è quella che seguo, da anni. E' la corrente che talvolta mi porta ad arenarmi contro secche mostruose, mi fa scendere negli abissi neri della depressione, e poi mi fa ripartire, nel flusso dei colori, potenti, gioiosi, solari, luminosi, perché scopro nuovi affluenti (altri artisti, altri amori, altre persone meravigliose) che mi portano ricchezza. Non sono trendy, caro gallerista, non faccio arte povera. La mia arte è povera per forza, alla terza settimana del mese faccio fatica ad arrivare. Siamo in Italia, paese buono e bravo che non riconosce un reddito minimo garantito e penalizza le madri separate con figli, per noi non c'è nessun diritto ma solo rovescio, c'è l'elemosina dei familiari se siamo fortunati... nel peggiore dei casi c'è l'assistente sociale, che da dietro i suoi occhialetti calati a metà del naso ti guarda con compassione e ti dice "Ma lei... perché vuole lavorare in questo settore?" (perché lo vedi anche tu, cara scaldaseggiola, che uno stipendio ci vuole per vivere, visto che sei la prima a beneficiarne a tradimento). Ma torniamo a noi. Non mi piace colorare fotocopie o scaracchiare sulla tela in preda ad un raptus (tanto si recupera l'immagine con la videoinstallazione), né fare il verso a questo o a quell'altro, americano, perché ameriganno, chi se ne frega, e se devo organizzare un vernissage mi prende male. Ma sei mai stato a un vernissage caro gallerista? No, perché tu ti defili sapientemente, sapendo che non ne vale la pena o preso dai rimorsi tardivi perché nella toilette non hai rinnovato la carta igienica (gli ultimi rotoli te li sei ammascati in borsa). L'ultimo al quale assistetti, sembrava un incontro di rugby. C'era persino un noto fumettista che mi chiese se dipingo anch'io e si stupì quando gli risposi di sì. Un gruppo di vecchine fameliche, secche come chiodi ma con un ampio doppiofondo, si era messo davanti al tavolo per impedire a chiunque di raggiungere le tartine. Nemmeno le mie supertette riuscirono a farsi largo in mezzo a quei morti di fame. Mi presi due gomitate e molti sensi di colpa per avere pensato lontanamente al cibo. Non parlo delle bevande, alcool colorato della peggiore specie che ti si pianta sullo stomaco, nemmeno ai barboni gli si rifila queste schifezze, ma ai vernissage tutto è permesso perché "tanto è gratis". Allora parliamo di gratuità caro gallerista. Facciamo un attimo una botta di conti. Io le mostre preferibilmente le faccio in locali non a pagamento, e sai perché? A parte che nessuno, per lavorare, sarebbe disposto a pagare interamente e profumatamente il materiale che usa (con l'IVA al massimo), la sua assicurazione, i locali nei quali lavora, quelli che utilizza perché tu venda i suoi lavori, le persone che invita, quelle che inviti tu, quelle che scrivono di lui, e in più, a darti una percentuale sul venduto. In pratica a stipendiare te e se ci riesce sé stesso. Nessuno, tranne quel coglione dell'artista. Sai perché, a parte il problema di dover sborsare molto, molto, molto, molto di più di quanto si guadagni... mi piace di più esporre in locali non a pagamento? Perché so che la gente fa la fila per entrare nei musei dove la pittura si racconta da sola, ma non entra volentieri in una galleria: la galleria è un incrocio tra una chiesa e un negozio, diciamolo le gallerie tranne il fatidico giorno del vernissage perché se magna aggratis... sono sempre vuote!, il timore reverenziale che la gente ha per l'arte contemporanea, della quale spesso non capisce un cazzo, e non capisce un cazzo perché è abituata così, perché c'è un critico prezzolato che è un incrocio tra un prete e un bottegaio che è preposto a spiegarla, l'arte contemporanea, con parole inaccessibili, astruse e non decifrabili, così il timore verrà portato ai massimi livelli... in fondo si tratta di luoghi sacri. Sacri sì, ma per il denaro! Un critico che si fa pagare per una recensione su un noto quotidiano duemila euri (o erano solo mille? un prezzaccio di favore), approfittando del fatto che l'artista, questo misero coglione, fresco d'Accademia, di troppe belle speranze, oppure pensionato che ha lavorato una vita (per pagare te, stronzo) in cerca di un po' di gloria per finire la vita pensando che la vita non è stata soltanto alzarsi alle sei per timbrare un cartellino. No, la vita finisce in bellezza stipendiando te. Ma insomma, "caro" gallerista della specie a pagamento (che va per la maggiore), non mi parlare di arte concettuale, quella se po' fa, concettualmente tutto è possibile, ad esempio se fossi ricca sfondata e figlia di un industriale, che so, o mi chiamassi Potere a Romina, in onore a Piero Manzoni faccio la cacca sulla tela e mi compro una pagina sul giornale, no anzi, visto che ci sono vado alla Biennale. Cordiali Campari. 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venerdì 10 febbraio 2012
9 febbraio 2007
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